Museo Civico Medievale
Via Manzoni, 4
40121 Bologna
tel. 051 2193930 - 2193916
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Museo Civico d'Arte Industriale e Galleria Davia Bargellini
Strada Maggiore, 44
40125 Bologna
tel. 051 236708
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Collezioni Comunali d'Arte
Piazza Maggiore, 6
40121 Bologna
tel. 051 2193998
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Museo del Tessuto e della Tappezzeria "Vittorio Zironi"
Via di Casaglia, 3
40135 Bologna
tel. 051 2194528 - 2193916
fax 051 232312
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Nella cosmopolita Bologna del Settecento, la scena artistica si presentava quanto mai vivace. Tra i pittori si distinse Giuseppe Marchesi (Bologna, 1699-1771), di temperamento irrequieto e di corporatura imponente, alla quale dovette il soprannome di Sansone. Allievo di artisti importanti della generazione precedente, come Aureliano Milani e poi Marco Antonio Franceschini, continuò a dipingere nel solco della tradizione classicista dei Carracci, di Guido Reni e dei loro successori. Questo orientamento stilistico era sostenuto anche dalla principale istituzione di formazione artistica presente in città, l’Accademia Clementina, alla quale Marchesi appartenne, ricoprendo svariati incarichi didattici e di direzione.
La capacità di fondere colori caldi e forti muscolature, derivati dalla lezione dei Carracci, con la grazia del disegno, tipica della pittura di Franceschini, resero il Sansone un pittore apprezzato dal pubblico e dai colleghi. Prolifico e garbato, soprattutto nella fase giovanile (tra il terzo e il quarto decennio del secolo), la sua vivace vena narrativa diede risultati di estrema piacevolezza, che culminò negli affreschi della chiesa di Santa Maria di Galliera, a Bologna.
La mostra alle Collezioni Comunali d’Arte, che conservano il dipinto di soggetto storico Clemente VIII restituisce agli Anziani di Bologna le chiavi della città (1739), si incentra su questa fase della carriera dell’artista. L’inedita coppia di pendant con Mosé e le figlie di Ietro e Salomone incensa gli idoli (1725 ca.), il cui successo è dimostrato dalla presenza di copie presso il Museo Diocesano di Imola, è in prestito da una collezione privata. Alcune opere di soggetto profano documentano al meglio lo stile giovanile dell’artista: le Quattro Stagioni, l’Ebbrezza di Noè, un ritratto in miniatura di Fanciulla e due vivaci disegni, il Ratto delle Sabine e il Ratto di Elena, progetti per un dipinto da realizzare nella sala d’onore della casa poi appartenuta ai mercanti Buratti, promotori delle arti e di vari artisti bolognesi. Solo il secondo, datato 1725, venne eseguito dal pittore e apre la sua carriera documentata.
La figura di Marchesi fu dimenticata in seguito ai cambiamenti della storia del gusto che condannarono il Settecento come secolo superficiale e vuoto di contenuti. Solo a partire dagli anni settanta del secolo scorso lo storico dell’arte Renato Roli ne ha ricostruito brillantemente il catalogo.
La ricerca si articola in tre azioni: l’esposizione di cinque oggetti della Collezione all’interno di un allestimento ideato apposta per la mostra; per ognuno di questi, la creazione di un’immagine bi-cromatica ottenuta attraverso la post-produzione della corrispondente fotografia di still life prodotta durante la digitalizzazione; la raccolta di una serie di fotografie istantanee che ritraggono i vari luoghi che gli oggetti della collezione abitano.
Queste tre azioni, assieme, vogliono indagare il rapporto fra oggetto, contesto ed identità, proponendosi come un gioco di associazioni visive tra le diverse modalità di esistenza di questi manufatti.
Per essere digitalizzato, ogni manufatto, in solitudine, è stato prelevato dalla teca che abita e posto dentro ad un box ad illuminazione controllata, su di un telo bianco, per mostrarsi nell’inquadratura della macchina fotografica in un luogo infinitamente bianco, senza confini né orizzonti.
Un artificio visivo, questa è la posizione considerata favorevole per lo studio e l’identificazione dei beni della collezione.
Ma ognuno di questi oggetti proviene da luoghi distanti, da tempi diversi, dall’America precolombiana fino alla Cina dell’800. Ritrarli tutti quanti nelle medesime condizioni, in un “non-contesto”, non è sembrato sufficiente per la loro conoscenza.
Federico Landi ha quindi deciso di seguire le tracce che gli oggetti hanno lasciato nel percorso per arrivare al lightbox e li ha ritrovati all’interno di vetrine, schedari, monitor, uffici disseminati per il territorio, database, scrivanie, sotterranei, su supporti fotografici, pellicole negative e bit di dati. Queste tracce, raccolte in una serie di fotografie istantanee, viste assieme e lette globalmente, danno forma al contesto odierno di questi oggetti.
Il leone delle nevi cinese, la ciotola in terracotta, la sfera bruciaprofumi veneto-saracena, il vaso berbero, il vaso zoomorfo chimù, non abitano soltanto le vetrine espositive del Museo. Sono in realtà in pellegrinaggio fin dal giorno in cui sono stati ideati. Hanno circolato e circolano di rappresentazione in rappresentazione, di scenario in scenario, di vibrazione in vibrazione, facendosi contaminare e contaminando tempi e spazi di cui ci è possibile tenere traccia solo parzialmente.
La loro identità assume significati diversi a seconda delle formattazioni a cui è sottoposta e dei luoghi in cui risiede.
Cinque immagini di still life, realizzate per la digitalizzazione, sono quindi state manipolate, creando delle bicromie che si propongono come auree del reciproco rapporto di influenza tra questi manufatti e l’ambiente, diorami cromatici che accolgono le infinite vite, conosciute e sconosciute, di questi oggetti.
Infine, contesto ed identità dei manufatti sono indagati attraverso la manipolazione delle vetrine espositive in cui sono quotidianamente esposti. Nelle bacheche del Museo, i cinque oggetti soggetti delle bi-cromie sono esposti dentro ad un box bianco, dietro ad un plexiglass colorato, visibili soltanto attraverso un filtro che ne altera la percezione.
Inaugurazione dell'esposizione in occasione della conferenza Tra restituire e condividere. Riflessioni sul patrimonio extraeuropeo nei musei italiani ed europei
Promossa dai Musei Civici d’Arte Antica, in collaborazione con il Museo di Palazzo Poggi del Sistema Museale di Ateneo dell'Università di Bologna, Verità e illusione è la prima mostra organizzata in città sull’arte della modellazione in cera.
Il capoluogo emiliano fu nel Settecento infatti luogo d’elezione per la ceroplastica, come non aveva mancato di rilevare Julius von Schlosser nella sua pionieristica Storia del ritratto in cera (1911), e soprattutto come ha fatto emergere Andrea Emiliani in un suo importante saggio (1960): a lui la mostra è infatti dedicata.
Le prerogative di questa tecnica, tali da imitare la consistenza ed il colorito anche delle membrane più sottili e quasi invisibili, ne hanno fatto uno strumento assai efficace per scopi di didattica scientifica.
Accanto, tuttavia, a questo uso, nella Bologna di papa Benedetto XIV Lambertini la ceroplastica si ritagliò uno spazio di affermazione più ampio, ponendosi quasi a concorrenza con le altre arti tradizionali (la pittura, la scultura in terracotta), riuscendo a soddisfare le richieste di una committenza evidentemente sedotta dall’alto potenziale mimetico garantito dalla modellazione in cera associata ad altri materiali.
In città e non solo si diffusse la moda di realizzare ritratti in cera: busti, composizioni, profili iperrealistici che ritraevano nobili e sante, prelati e dame.
La tecnica ebbe eccezionali virtuose/i, tra cui la celebre artista e studiosa Anna Morandi Manzolini, o maestri di primo piano dell'arte del tempo come Filippo Scandellari o Ercole Lelli.
Il percorso permette di scoprire numerosi e affascinanti capolavori e si snoda tra la sede del Museo Davia Bargellini e quella del Museo di Palazzo Poggi, con la celeberrima "Camera della Notomia" dell'Istituto delle Scienze.
Il museo che non si vede. Tesori dai depositi del Museo Civico Medievale
Il Museo Civico Medievale espone diverse raccolte provenienti dai depositi. Una molteplicità di piccoli e grandi capolavori, spesso poco noti o addirittura per la prima volta presentati al pubblico.
La mostra permette ai visitatori e alle visitatrice di scoprire alcune meravigliose maioliche del Rinascimento italiano, la prestigiosa raccolta di ceramiche Manises, il sontuoso Trittico di Limoges e tanti altri manufatti in terracotta, pietra, bronzo o mosaico che spesso giacciono immeritatamente nei depositi per mancanza di spazio espositivo.
Inoltre, sarà per la prima volta mostrata una piccola ma notevole raccolta di oggetti precolombiani recentemente donati al museo e un grande dipinto seicentesco dedicato ad uno dei protagonisti della storia cittadina: Ludovico Bentivoglio. A corredo dell’esposizione, giovani ricercatrici e ricercatori, oltre a studiare alcuni pezzi, condurranno una serie di visite guidate che permetterà al pubblico di ogni ordine e grado di scoprire tanti segreti di questi tesori.
In occasione di ART CITY 2023 le Collezioni Comunali d’Arte ospitano la personale di Slaven Tolj Craquelure. Pavo and me. La mostra, curata da Daniele Capra, è costituita da una quindicina di opere oggettuali e documentative dell’artista, nonché dalla performance Bologna, February 2023, realizzata appositamente per il museo bolognese.
Craquelure. Pavo and me – i cui lavori spaziano dalla scultura alla fotografia, dalla performance all’intervento site specific realizzato per la Sala Urbana – ripercorre a volo d’uccello l’opera dell’artista evidenziando la sua capacità di porsi come elemento interstiziale rispetto alle dinamiche interiori, interpersonali e politiche. A partire dai suoi esordi alla fine degli anni Ottanta, fino alle opere recenti che testimoniano le vicissitudini dovute a un ictus che ha minato le sue capacità linguistiche, la pratica della body art e dell’arte concettuale sono centrali per Tolj, la cui ricerca è alimentata da un continuo scambio con gli eventi relazionali e professionali vissuti in prima persona. La mostra, che ha la forma di una sintetica retrospettiva, è un racconto intimo condotto attraverso le vicende personali e storiche che hanno segnato la vita di Tolj, a partire dalla tragica dissoluzione della Jugoslavia. La mostra è dedicata al fotografo Pavo Urban, amico dell’artista morto in guerra a Dubrovnik il 6 dicembre 1991, del quale sono esposte due fotografie che documentano una performance dell’artista.
Nell’azione A tattoo of the logo of Rijeka’s Museum of Modern and Contemporary Art Rijeka (2013), realizzata nelle settimane successive alla sua nomina a direttore del museo MMSU, l’artista si fa tatuare il logo del museo sulle spalle. È un’opera insieme intima e politica, nella quale l’artista testimonia la sua dedizione personale al nuovo ruolo istituzionale; ma, essendo egli anche artista, evidenzia il fatto di come i musei siano percepiti come un marchio e un metro di valore del proprio lavoro.
In Community Spirit in Action (1998) Tolj performa in un peep show di Zagabria insieme a una spogliarellista, presentando il proprio corpo disteso e coperto da un panno del tutto inerme. L’opera evidenzia la condizione paradossale di essere un bodyartista la cui presenza passa socialmente quasi nascosta, mentre il corpo di donna, sfruttato e oggettivato eroticamente dagli uomini, è al contrario il fulcro del desiderio.
La fotografia Untitled (1997) testimonia la rimozione dei maestosi lampadari della Chiesa di Sant'Ignazio, a Dubrovnik, affinché non potessero cadere sulle persone, avvenuta durante i combattimenti nelle guerre nell’Ex Jugoslavia. Gli oggetti sono stati così sostituiti con delle semplici lampadine industriali senza identità.
Nella performance Dubrovnik-Valencia-Dubrovnik (2003) Tolj rimanere a torso nudo dopo essersi tolto una dozzina di indumenti, ciascuno dei quali provvisto di un bottone nero che simboleggia un amico perso in guerra. A quel punto strappa uno dei bottoni e decide di cucirlo sulla propria pelle, usando ago e filo, come se fosse una medaglia da appuntarsi al petto. Ma, al contrario, questo gesto diventa il segno di un lutto, di un dolore che denuda e dal quale non ci si può più liberare.
L’opera è, nella poetica di Tolj, un elemento di mediazione e relazione tra l’artista, il suo corpo e il contesto in cui si è generata. Attraverso la propria presenza, ad azioni minimali condotte con il proprio corpo, a spostamenti di piccoli oggetti, Tolj mette in luce le fessure e le scorticature che la vita e la storia causano sul tessuto della nostra esistenza, come la craquelure che si produce sulla superficie dei dipinti a olio col passare degli anni. Senza retorica, con un linguaggio scarno e necessario, l’artista interroga l’osservatore e lo investe di un’intensa carica emotiva, rivelando con i suoi lavori l’immane crudezza della realtà.
Nell’ambito di ART CITY Bologna in occasione di Arte Fiera, in collaborazione con: Musei Civici di Bologna, Musei Civici d’Arte Antica, FMAV Fondazione Modena Arti Visive, Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e Ministero della Cultura.
Concerning Dante - Autonomous Cell di Jacopo Valentini a cura di Carlo Sala, è un progetto fotografico legato all’immaginario dantesco che ripercorre lungo l’Italia i viaggi reali compiuti dal poeta e quelli letterari attraverso il suo capolavoro, la Divina Commedia. Le opere dell’autore sono esposte lungo i tre piani della collezione permanente del museo, creando così un dialogo formale e ideale che in alcuni passaggi si fa particolarmente eloquente, come con la colossale statua realizzata da Manno di Bandino che ritrae papa Bonifacio VIII, personaggio centrale nei rivolgimenti politici fiorentini che provocarono l’esilio del poeta.
La ricerca si snoda attorno a tre luoghi simbolici, che sono interpretati come i varchi che conducono rispettivamente a Inferno, Purgatorio e Paradiso, dei veri e propri punti di contatto tra la narrazione della Commedia e la realtà del territorio italiano.
Il primo, le bocche vulcaniche dei Campi Flegrei, era per gli antichi romani l’antro di Caronte, il traghettatore delle anime dei morti al di là del fiume dell’Ade, e Virgilio nell’Eneide vi colloca la discesa agli inferi.
La Pietra di Bismantova è ritratta dall’artista a simboleggiare il Purgatorio, seguendo un esplicito richiamo del testo nel IV Canto.
Il delta del Po è invece la figurazione del Paradiso: un luogo che non presenta un legame filologico con il libro, ma è stato adottato come un pretesto visivo capace di evocare le suggestioni del poema mediante il suo caratteristico paesaggio sospeso e atemporale.
Uno degli aspetti preminenti che la ricerca di Valentini vuole far emergere sul rapporto tra testo letterario e paesaggio è come l’influenza del primo verso quest’ultimo sia stata tale da condizionare la percezione dei luoghi. A contribuire a questo processo è stata l’ampia mole di figurazioni del testo che si sono succedute nei secoli, a cui il fotografo si è approcciato ritraendo con la tecnica dello still life alcuni lavori di Federico Zuccari, Alberto Martini e Robert Rauschenberg.
Ogni opera autoriale fotografata da Valentini è una ‘cellula’ di quel complesso universo visivo in perenne mutazione, che forma l’immaginario dantesco e che appare come una cartina tornasole dell’evoluzione della società e del suo rapporto con aspetti cruciali quali la morale, la religione e il potere.
La prima opera riletta visivamente da Valentini nella sua ricerca è il Dante Istoriato di Federico Zuccari (1539-1609), che nella seconda metà del Cinquecento realizzò una sorta di libro d’artista, dove le immagini diventano il centro della narrazione. La gamma cromatica adottata dal pittore in ogni cantica ne accentua il pathos visivo, come emerge nelle tavole dell’Inferno realizzate a matita. Nella sequenza iconografica del libro, Valentini colloca i disegni dell’artista urbinate tra le vedute laviche di Lanzarote e i fumi delle solfatare dei Campi Flegrei, creando una analogia visiva tra finzione e realtà.
Il secondo contributo è quello di Alberto Martini (1876-1954), artista che ha sempre mantenuto un rapporto molto intenso con la Commedia. L’occasione fu il celebre concorso del 1900 per l’edizione Alinari, snodo cruciale per la figurazione del poema dantesco perché aprì a una pluralità di declinazioni autoriali moderne con il solo vincolo della riproducibilità tecnica (non a caso era promosso dalla ditta della celebre dinastia di fotografi), agendo così da elemento capace di proiettare ulteriormente il testo nella cultura di massa. Valentini ha lavorato alla Pinacoteca Martini di Oderzo, dove è conservato un corpus di 298 opere a tema dantesco realizzate dall’artista, la cui cifra stilistica si colloca tra simbolismo e surrealismo.
La terza presenza autoriale è quella dell’artista statunitense Robert Rauschenberg (1925-2008) che sul finire degli anni Cinquanta perfezionò la tecnica del “transfer a solvente” lavorando sulle immagini fotografiche delle riviste del tempo, poi riprese a matita e acquerello. Nella tavola Malebolge, “transfer drawing” dedicato all’ottavo cerchio dell’Inferno, gli atleti che campeggiavano sulle pagine di “Sports Illustrated” diventano personaggi della Commedia: Virgilio ha le fattezze di un tennista, mentre i giganti sono tre lottatori sul podio. Illustrando la Commedia, Rauschenberg coglie il pretesto per parlare dell’attualità e, innestando sul poema temi di natura politica e sociale (tra i suoi (tra i suoi personaggi figurano anche John Kennedy e Richard Nixon), sottolinea l’universalità del poema dantesco.
NOS Visual Arts Production presenta FRESCO, la prima mostra personale di Davide D’Elia a Bologna, presso il Museo Davia Bargellini, a cura di Elisa Del Prete e in collaborazione con i Musei Civici di Bologna | Musei Civici d’Arte Antica nell’ambito di ART CITY Bologna 2022, in occasione di Arte Fiera.
L’intervento è pensato in dialogo con la collezione del museo e i peculiari criteri museografici che ne dettano il percorso espositivo all’interno del palazzo seicentesco dove è situato, raro esempio di collezionismo privato cittadino.
La mostra si compone di otto quadri in plexiglas del ciclo FRESCO realizzati nel corso di un precedente intervento site specific operato da D’Elia nel 2018 sugli affreschi del Salone delle Feste del Palazzo Atti-Pensi di Todi, dimora cinquecentesca che si erge al centro della piazza principale della città umbra, che a Bologna vengono allestiti in relazione ai dipinti e alle sculture commissionate dal mecenatismo dei Bargellini, tra le famiglie bolognesi che ricoprirono importanti cariche nel Senato cittadino.
Da tempo l’artista indaga la relazione tra passato e presente, storia dell’arte e arte contemporanea, pittura accademica e “gesto” pittorico, in un percorso che mette al centro un ripensamento su forma e colore in chiave attuale. Per realizzare il ciclo FRESCO a Todi, l’artista non è intervenuto direttamente sugli affreschi ma vi ha apposto delle strutture in plexiglas appositamente progettate. Ciò gli consente di stendere campiture di pittura “iris blue” celando talvolta gli elementi organici del paesaggio, talvolta le architetture nell'intento di far emergere la costruzione dei dipinti degli affreschi sottostanti. Una volta rimossi dagli affreschi, gli otto quadri sono diventati pitture astratte - o "assolute", come le definisce l'artista - su cui si è conservata la traccia dell’indagine compositiva creando un discorso tra "pittura assente".
La mostra a Bologna è completata da due nuovi interventi site specific, Zero e Zero1, su due dipinti della collezione del museo entrambi dal titolo Paesaggio con figure di Vincenzo Martinelli (fine sec. XVIII) esposte nella Sala 1. Zero e Zero1, nel momento in cui lasceranno il luogo originario del Museo Davia Bargellini per essere esposti altrove, attiveranno a loro volta un processo di traslazione portandosi dietro il contesto primario.
“Atti” dello stesso componimento poetico, le opere di FRESCO costruiscono nel tempo e nello spazio un dialogo tra luoghi geograficamente distanti tramite un’azione di sovrapposizione in cui la storia e l’identità di ognuno si stratificano sul tassello successivo.
Proprio in tale ottica la visita propone un’esperienza di Realtà Virtuale (realizzata da Filippo Pagotto/EL CA BO), tramite cui il visitatore si fa testimone della simultaneità dell’opera ricongiungendo il ciclo alla sua fonte originaria.
Durante il periodo di mostra il Museo Davia Bargellini ospiterà un talk con l’artista per la presentazione del concept book Tiepido Cool realizzato grazie al sostegno dell’Italian Council (X edizione, 2021), programma di promozione internazionale dell’arte italiana della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura di cui Istituzione Bologna Musei | Musei Civici d'Arte Antica è partner culturale.
Per celebrare l’importante donazione della preziosa collezione Cappagli Serretti (117 vetri), i Musei Civici d’Arte Antica di Bologna, in collaborazione con la Fondazione Musei Civici di Venezia, in particolare con il Museo del Vetro di Murano, organizzano una mostra curata da Mark Gregory D’Apuzzo, Massimo Medica e Mauro Stocco.
L’esposizione, presso il Museo Civico Medievale, è l’occasione per ammirare l’intera raccolta da poco acquisita (2020), che va ad incrementare il già cospicuo patrimonio museale di vetri. Nelle sedi del Museo Civico Medievale e del Museo Davia Bargellini sono infatti custoditi capolavori dell’arte vetraria, che grazie alla donazione vedono implementate e integrate, nella varietà delle tipologie e delle provenienze, le loro ricche raccolte.
La collezione Cappagli Serretti è di grandissimo pregio non solo per il considerevole numero di oggetti e per la loro indubbia qualità artistica, ma anche e soprattutto per il fatto che essa consente di avere una panoramica ampia ed esaustiva sulla vetraria europea dal Seicento agli inizi del Novecento. La mostra permette infatti di allargare lo sguardo ben oltre gli orizzonti italiani per conoscere, ad esempio, il mondo vetrario inglese e spagnolo del Settecento o la colorata produzione boema dell’Ottocento. Le varie manifatture sparse nel continente non costituivano mondi a sé stanti, isolati gli uni dagli altri, ma erano in realtà in stretta relazione condividendo tecniche, forme e motivi decorativi, ma mantenendo sempre degli specifici caratteri che le contraddistinguono. Spicca per unicità e qualità tecnica il gruppo di opere del Seicento veneziano, come l’esuberante calice con gambo a stelo di fiore o la raffinata alzata decorata da una catenella in vetro acquamare. Ben documentato dagli oggetti esposti in mostra è poi il fenomeno, ancora poco studiato, della produzione veneziana ed europea settecentesca a imitazione di quella boema. Accanto ad oggetti pregiati presenti nelle tavole aristocratiche o borghesi, è presente nella collezione anche un notevole gruppo di oggetti “popolari” o d’uso più comune, quali i vetri utilizzati nelle spezierie come strumenti da laboratorio (storte, imbuti, versatoi). La mostra si pone quindi come un’occasione unica per avvicinarsi al mondo del vetro, scoprirne le tecniche di lavorazione, i segreti e - soprattutto - la sua fragile bellezza.
COMUNE DI BOLOGNA
Settore Musei Civici di Bologna
via Don Minzoni 14
40121 Bologna